2019

Esperire la bellezza

Maria Will

Dove va individuata la natura più vera dell'opera pittorica di Giancarlo Moro? Da dove scaturisce la scintilla dell'unicità di questa sua opera, oggettivamente enigmatica e chiusa su se stessa a custodia del proprio cuore? Indicibilità, intraducibilità sono concetti

accostati dalla critica alla pittura di Giancarlo Moro1, della quale a più riprese l'artista medesimo (che accompagna il proprio lavoro con un distillato esercizio di pensiero) sottolinea la pertinenza squisitamente mentale; ravvisando inoltre nel tempo, nella luce, nella materia e nello spazio – variamente relazionati fra di loro – gli elementi primi e ultimi della sua ricerca creativa. La perseveranza entro tale intendimento – arduo per i limiti di esso, estremamente ridotti e nel contempo potenzialmente illimitati – insieme alla tenuta qualitativa, ribadita dipinto dopo dipinto, hanno portato i vari commentatori a riconoscere alla pittura di Giancarlo Moro un rigore che dal piano esecutivo si estende al piano morale2.
Sull'aprirsi degli scorsi anni Settanta, l'innato orientamento all'espressione artistica – rinsaldato e nutrito dalla conoscenza dei capolavori dell'arte incontrati nelle assidue visite ai musei di Londra piuttosto che di Monaco di Baviera, Ginevra o Berna (città nelle quali Giancarlo Moro ha vissuto) – si precisa con decisione nella scelta dell'astrattismo. Qui, forse, nel rinsaldare la direzione di ricerca, qualcosa ha contato anche l'eco della cultura figurativa internazionale circolante nel Locarnese (regione nella quale Giancarlo Moro si stabilisce dal 1970), di quella cioè suscitata in particolare da figure come Ben Nicholson e, in generale, irraggiata dagli atelier di Remo Rossi, dove erano confluiti alcuni fra i protagonisti più in vista dell'arte astratta. Eco che viene ad incontrarsi, nella storia personale di Giancarlo Moro, con la rivelazione proprio dell'opera di Nicholson, che fu uno dei portati più fecondi del suo soggiorno londinese del 1968. E, ancora, quell'eco bene si accorda con l'attrazione per la chiarezza intellettuale della cultura figurativa transalpina e specialmente per uno dei suoi maggiori campioni, Le Corbusier, riferimento recondito ma costante per Moro tanto quanto lo è la profondità poetica di Paul Klee. Un profilo, dunque, quello di Giancarlo Moro, nel quale è possibile leggere l'importanza dell'asse di orientamento 'nordico' per gli sviluppi della scena artistica degli ultimi quattro-cinque decenni nella nostra regione, asse che occorre considerare dunque nel suo giusto peso rispetto al polo costituito da Milano e dalla Lombardia, cui si rivolgono soprattutto le vicende espressive di matrice informale.
Si vedrà svelarsi, via via maturando il discorso pittorico di Giancarlo Moro, la sua attinenza all'ampia categoria del minimalismo in virtù della progressiva, estrema riduzione degli elementi della composizione a vantaggio del potenziamento della loro aura. Un processo di affinamento, che Moro conduce in ideale dialogo con vari autori assimilabili a quella linea di ricerca detta dei "pittori del silenzio"; e, fra di essi e a lui più cari, vanno almeno nominati Antonio Calderara e Agnes Martin, il cui scavo dentro il nodo sostanziale della pittura ha assunto dimensioni quasi ascetiche. Neppure ignora, la pittura di Giancarlo Moro, le potenti provocazioni percettive di un artista attuale e dalla straripante inventiva quale è Gerhard Richter.
Nell'ottica di una comprensione unitaria dei fatti dell'arte a noi prossimi – e ferma restando la diversità delle declinazioni di ognuno dei due – può risultare di qualche utilità, mettere a paragone la ricerca di Giancarlo Moro con quella di Gianfredo Camesi. Se il primo assegna alla pittura un ruolo esclusivo mentre il secondo si avvale di molteplici mezzi espressivi, resta che fortemente analoga appaia l'allusione insistita di entrambi alla fatalità di una linea di demarcazione – linea di passaggio e di osmosi – che si manifesta lungo le due direttrici fondamentali: l'orizzontalità e la verticalità. Ne nascono spazi che, quale massimo loro significato, hanno il vuoto. Concetto che, come noto, chiama in causa direttamente l'influenza che l'Oriente ha esercitato su tutta la modernità. E giustappunto lo stesso Giancarlo Moro segnala ripetutamente come la sua riflessione artistica tessa dei fili sottili ma tenaci con la cultura e l'arte dell'antico Estremo Oriente, da lui grandemente ammirate. Fili che si palesano soprattutto in termini di ritmo dello sguardo e di invito alla contemplazione per, finalmente, arrivare ad una visione acuita3.
Coloro che hanno la fortuna di frequentare la casa e l'atelier di Giancarlo Moro a Cavigliano, godendo dell'ordine e dell'equilibrio armonioso che si ritrovano negli ambienti interni così come nel giardino, possono toccare con mano come i principi estetici che l'artista applica nei suoi lavori abbiano un riverbero concreto nella sua stessa vita, nel suo quotidiano, in cui scorre il rapporto di reciproca necessità con Ruth Moro, dedita per suo conto ad una ricerca compositiva basata sul segno-colore che abbraccia elementarità e complessità. Insieme, moglie e marito, formano una coppia di artisti particolarmente coesa e che proprio nell'assonanza con l'universo formale orientale trova un terreno d'intesa e di scambio intenso4.
Dal suo canto, l'immaginario di Giancarlo Moro approda ad una vera e propria costruzione visiva, di disposizione architettonica, in quanto ideata esplicitamente come un percorso di attraversamento e in qualche modo di evoluzione. Già fin dagli inizi, negli anni Settanta, campo di sperimentazione fu il quadrato, inteso come superficie entro la quale mettere a confronto fra loro figure geometriche primarie e entro la quale giostrare le tensioni strutturali che ne originano. Ben presto, tuttavia la figura-forma si rivela imprescindibile e inseparabile dal colore: sarà allora la rivelazione della superficie-colore, che diventa d'ora in poi incontrastata protagonista del dipinto. Tolto ormai anche l'appiglio evocativo del titolo a favore del "Senza titolo", in un inarrestabile processo di sottrazione, avverso al pur minimo fattore che interrompa lo scorrere della visione, tutto si concentra nella sostanza del colore e nella dialettica delle campiture distinte da differenti texture. Giancarlo Moro sa trovare toni di colore talmente raffinati e unici da diventare da sé soli una cifra di riconoscimento della sua opera ma soprattutto sa sostenere lo sforzo grandioso benché inapparente richiesto da un lavoro che si gioca su spostamenti infinitesimali: ossia sulla variazione che sempre è capace di scovare il nuovo nella somiglianza, come ha acutamente argomentato Konrad Tobler nell'analisi con cui ha rintracciato Il vocabolario pittorico di Giancarlo Moro5. Strutturata per somma di unità significanti (di cui la composizione a dittico forma l'apice) l'opera di questo artista accoglie a cadenza distanziata articolazioni inedite, che aprono su possibilità imprevedibili. Come avviene di recente con l'introduzione nel "vocabolario semantico" di una griglia quadrettata che risponde perfettamente al principio caro a Giancarlo Moro della pregnanza nella essenzialità. La percezione di tale ricchezza di contenuto è indubitabile: trasmessa da ciò che non possiamo chiamare altro che bellezza si traduce in un'esperienza estetica ambientale, la cui finalità può anche voler dire "arrivare a perdersi". Valida risposta all'interrogativo iniziale.


1 Così Marco Franciolli e Konrad Tobler in Giancarlo Moro. Opere / Werke / Oeuvres 2006-2010, Lugano, Museo cantonale d'arte, 2011.
2 «La pittura di Moro è qualitativamente alta, moralmente esigente» ha osservato Walter Schönenberger nel 2002 (Spazi scorrevoli. Considerazioni sull'astrattismo di Giancarlo Moro, cfr. www. giancarlomoro.ch); nel catalogo della mostra personale presso Le Manoir de la Ville de Martigny del 2006, Flaminio Gualdoni ha richiamato l'«etica del nitore»; all' apertura dell'esposizione tenuta per l'Associazione Triangolo a Locarno nel 2016, Dario Bianchi ha detto: «nel commisurarsi quotidianamente con forme e colori [Giancarlo Moro] anela alla perfezione; una perfezione mai leziosa ma tale da rendere manifeste e leggibili le sue intenzioni estetiche e affermerei anche etiche» (cfr. www. giancarlomoro.ch).
3 All'attenzione del visitatore della mostra, che la presente pubblicazione accompagna, Giancarlo Moro scrive il testo seguente, intitolato I piaceri dell'intervallo e datato luglio 2018: «Da sempre concepire un percorso è un’avventura mentale e conduce a confrontarsi con tempo, luce e materia nello spazio. / L’intervallo nasce da un percorso che impone o suggerisce cambiamenti di direzione, pause e, come in un giardino giapponese, ci invita alla contemplazione. / Lo sguardo viene così spostato su spazi qualitativamente diversi e si confronta con elementi contrastanti che cercano di coesistere. / Questa scansione del percorso visivo rivela nuove situazioni spazio-temporali generate dagli intervalli come pause di silenzio. / Le parti si separano e si congiungono per creare un nuovo evento e, tra spazi di silenzio nasce una nuova visione».
4 Sul risvolto del loro essere "coppia di artisti" si vedano le osservazioni di Claudio Nembrini (Soli e in coppia, Bellinzona, Galleria Pangeart, 2004, pieghevole della mostra) e di Jean-Michel Gard nel catalogo della mostra Giancarlo Moro, Martigny, Le Manoir de la Ville de Martigny, 2006.
5 Cfr. Giancarlo Moro. Opere / Werke / Oeuvres 2006-2010, cit., s.p.

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2019

Fra ordine e disordine, corpo e mente, fra gli accidenti del vivere e lo stacco della mente…

Claudio Guarda

I quadri-oggetto di Giancarlo Moro – esposti fino al 26 maggio al Museo Epper di
Ascona - eliminando la cornice, eliminando anche l’idea di finestra affacciata sul mondo chiusa entro i consueti telai; ...

In quanto tali essi riportano l’attenzione dell’osservatore solo su quanto avviene al loro interno. Ed il loro interno e la superficie stessa del dipinto che, eliminata ogni narrazione o profondità prospettica, mette a contatto due o più superfici astratte, chiaramente differenziate, che si contrappongono ma al tempo stesso si implicano anche.
L’opera d’arte vive quindi di questa sottile tensione che si viene a creare tra due o più polarità messe in sinergia: dove c’è contrapposizione o contrappunto ma anche dialogo e desiderio di convergenza, dissonanza e bisogno di consonanza, il tutto in uno stesso tempo. Non solo per quel che riguarda il rapporto tra le superfici in generale, ma anche per quel che le contradistingue al loro interno: tra la predominante verticalità del’una e l’orizzontalità dell’altra, o l’incresparsi del segno e dei chiaroscuri da questa parte per rapporto all’ampio distendersi dell’altra, tra lucidità e opacità, tra movimento e stasi, tra fruscii e silenzi. Il tutto tramit tocchi e accidentiminimi che rifiutano l’effusione, anche nei toni e colori sempre in risonanza.
Nelle sue ultime opere tale sottile dualismo si è amplificato con la presenza di superfici, appena rilevate, lavorate a pettine le quali intensificano, a livello percettivo, l’effetto sensoriale di mobilità e fuggevolezza in contrappunto con la fermezza di una griglia mentale che, in zona contigua, si sovrappone al dipinto, lo infrena e lo compone dentro una misura di ordine e razionalità.
“I piaceri dell’intervallo” cui rimanda il titolo della rassegna asconese, sono quindi quelli dello stacco tra le parti, della pausa ma anche dellarelazione e della sintesi. Perché in definitiva nelle opere di Giancarlo Moro vive la dialettica di chi cerca un possibile armonico equilibrio tra ordine e disordine, tra corpo e mente, tra gli accidenti del vivere e lo stacco della mente. Ma potremmo anche dire di uno sguardo introspettivo e decantato che conclude in uno spazio quasi ascetico, meditativo, memore della lontana lezione di Mondrian e di Rothko.

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2016

Dario Bianchi

Presentazione mostra Centro Triangolo Locarno

Presente sulla scena artistica ticinese e nazionale a partire dal 1998 con delle mostre significative tra cui ne ricordo almeno due, in ordine di tempo, quella del 2005 tenutasi nel Manoir de la Ville de Martigny e quella del 2011 al Museo Cantonale d’Arte di Lugano Giancarlo Moro, grazie alla sensibile attenzione dell’associazione Triangolo inaugura oggi la sua prima esposizione locarnese.

Una scelta, a mio modo di vedere, assolutamente azzeccata quella di dare accoglienza ad un artista locale che si distingue per la serietà e la profondità della sua ricerca in atto e che nel contempo conferma la bontà di un’iniziativa culturale che nobilita ancora di più l’oneroso operato dell’associazione medesima.

Per addentrarci nella mostra che ci è dato ammirare attraverso il congruo numero di opere esposte con garbo e raffinatezza dallo stesso autore a determinare in tal modo un calibrato e assai accattivante connubio tra dipinti, spazi architetturali e luce, una prima particolarità è riscontrabile nel carattere stesso dei lavori i quali, per rapporto alle precedenti uscite, confermano quel dato di continuità che non significa mancanza di inventiva bensì adesione ad un modo consolidato d’intendere la pittura che evolve non tanto per via di repentini e bruschi cambiamenti di rotta ma per progressioni meditate e indubbiamente coerenti e confacenti all’indole stessa dell’autore.

Se è ancora possibile leggere un fatto pittorico nei termini di una possibile relazione tra chi si muove all’interno di un codice come quello visivo e ciò che di fatto, nel ruolo di osservatori, ci è dato percepire, allora possiamo affermare che una personale visione della realtà, intendendo con questo termine non solo il tangibile ma il cosmo tutto, e la cultura visiva di cui il nostro è adeguatamente provvisto si riflettono senz’altro all’interno dei singoli episodi appesi alle pareti.

Negli oli realizzati direttamente su tavole di legno o su carte successivamente applicate sul medesimo supporto rigido possiamo effettivamente cogliere una visione frammentata del reale dove l’accostamento di superfici sottoposte a differenti registri pittorici, in particolare ne evidenzierei due quello delle fasce orizzontali o verticali ottenute per raffinate applicazioni morbide di colore e quello delle campiture dove il trasalimento materico si fa più esplicito e palpitante, sono indicatrici di altrettanti temperamenti o atteggiamenti identificabili da un lato nel bisogno di rigore e dall’altro nella necessità di affermare o almeno esprimere il proprio vissuto in quanto riflesso di un’esperienza seppur spiritualmente decantata o distillata del mondo.

Dentro questa dicotomia, che la storica dell’arte Maria Will in un suo saggio del 2003 dal titolo emblematico Il sentimento e la ragione suggeriva come una precipua costante poetica dell’opera complessiva di Moro, si colloca per modo di dire l’intera produzione dell’artista locarnese che, intendendo il dipinto alla stregua di uno stimolo, sollecita nel contempo la facoltà interpretativa del riguardante.

Per quanto riguarda l’area o i contesti culturali entro cui Giancarlo Moro si muove, ribadendo in tal modo dell’importanza dei riferimenti a partire dai quali tentare una propria individuale declinazione nei termini di una sintesi dichiarativa assolutamente personale, un doveroso accenno all’espressionismo astratto come lo stesso si è manifestato in ambito statunitense a partire dagli anni 50 del secolo scorso va fatto proprio per meglio capire il solido substrato su cui si edifica per successivi e sempre più consolidati episodi, la cifra stilistica.del nostro.
Uno sguardo all’ovest e alle forme di astrattismo che privilegiano una scrittura minimalista, asciutta, rigorosa, essenziale dove la presupposta traccia oggettiva è ridotta all’osso, non può non spaziare a sua volta quasi per un moto complementare verso est in particolare in direzione dell’immensa cultura giapponese di cui Giancarlo è un grande ammiratore.
Infatti come non vedere una prossimità tra un tipo di composizione a comparti e l’intreccio delle pareti di carta scorrevoli delle abitazioni nipponiche, che suddividendo la superficie in aree contigue e giustapposte strutturano architettonicamente il perimetro configurazionale entro cui si depositeranno i pigmenti colorati?

O ancora l’importanza del vuoto, delle asimmetrie, del buio generatore di luce, principi questi che Moro fa propri alfine di dar forma ad un insieme equilibrato che sappia inglobare il concreto terrestre con la dimensione cosmica.

In questo fare astrazione dalla realtà per raggiungere .una sintesi evocante una dimensione che, semplificando, potremmo definire dell’ordine del trascendente, si situa la ricerca non solo pittorica di Giancarlo .

Nel prendere ad esempio almeno uno tra i tanti episodi per verificare l’attendibilità di quanto fin qui dichiarato, in particolare le tavolette orizzontali, suddivise in sezioni diseguali, evidenziano un altro fattore significativo legato all’astrazione, più precisamente quello delle corrispondenze, teorizzate e soprattutto sperimentate da Kandinsky, capostipite di quella che sarebbe diventata l’arte concreta, che tracciava una sorta di correlazione tra suoni e colori.

Tenendo conto di queste presupposte affinità una fascia suddivisa per esempio in 5 tasselli colorati può essere vista, udita come una sorta di accordo musicale, riecheggiante forse un notturno, ottenuto premendo simultaneamente altrettanti tasti della tastiera di un pianoforte.
Questa lettura sonora di una composizione oblunga, a ricordare il formato dei film in cinemascope, è indubbiamente paradigmatica della complementarietà dei linguaggi e assai eloquente se diventa un veicolo di espressione di stati d’animo che per essere comunicati non abbisognano di nessun tipo di referente oggettivo.
Una congettura interpretativa, assai personale e quindi ancora tutta da verificare, questa della correlazione tra colori e suoni estendibili pressoché a tutte le opere in mostra e che conferma un tipo di visione sincretica, particolarmente congeniale all’artista, in grado di operare delle sintesi sempre inedite in cui i dati percepiti nella loro radicale trasfigurazione formale contribuiscono alla messa a punto di un dispositivo iconografico assolutamente autonomo o per usare un termine desueto, puro nella misura in cui ciò che vediamo altro non è che il prodotto, seppur parziale, della ricerca di una dimensione altra, forse parallela rispetto al contesto abitudinario entro cui quotidianamente ci moviamo.
Una ricerca quindi di assoluto sembra contraddistinguere il fare artistico di Moro che nel commisurarsi quotidianamente con forme e colori anela alla perfezione; una perfezione mai leziosa ma tale da rendere manifeste e leggibili le sue intenzioni estetiche e affermerei anche etiche.
Intendimenti che rinnovandosi di volta in volta all’interno dei singoli episodi pittorici rivelano in filigrana un profilo umano particolarmente attento ai sussulti interiori, alle ragioni del cuore, agli interrogativi esistenziali che trovano voce e visibilità nelle contemplative stesure di colore, elaborate e trattate all’inverosimile con quella artigianale dedizione in quanto misura, rigore e probità.
In questo senso l’esercizio costante della pittura rappresenta una sorta di diario interiore dove l’artista Moro nel cercare di mettere a punto un’idea alta di bellezza, sussurra , con quella discrezione che lo contraddistingue, qualcosa dell’ordine del proprio vissuto non tanto per esternare a voce alta ma piuttosto per cercare nel morigerato e calibrato gesto creativo un dialogo con il fruitore invitato a sua volta a formulare dei possibili significati alle suadenti configurazioni pittoriche che in questo felice contesto espositivo ci è dato ammirare.

Dario Bianchi ottobre 2016

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2011

Contro l'automatismo della visione

Il vocabolario pittorico di Giancarlo Moro, Konrad Tobler

I.
Cosa c’è da vedere nella, davanti e all’interno della pittura di Giancarlo Moro?
A cosa bisogna prestare attenzione guardando?
Cosa resta dopo la visione?

Queste domande scaturiscono dal fatto che ci sia, a priori, qualcosa che debba essere denominato. Anche se – dato che l’oggetto di questa pittura è la sua stessa non-oggettività, essa si sottrae radicalmente al linguaggio, condividendo liberamente questo “destino” con la tradizione della pittura astratta a partire da Kandinsky e Malevi?, passando per Mondrian e arrivando fino a Rothko. Questo elemento di indicibilità è accentuato dal fatto che in questo caso non entra in gioco tuttavia nessuna teoria della “spiritualità nell’arte”. Quella di Moro è pura pittura autoreferenziale, senza sovrastrutture (in ogni caso senza sovrastrutture esplicite – il che ci riporta immediatamente alla visione e alla percezione). Oppure, per dirlo in maniera più cruda: la pittura è composta dalla materia del supporto, dai colori, dalle tracce stratificate del pennello o della spatola. E questo è tutto. Non c’è nulla di più, se non materia, nella quale la vista dovrebbe immergersi, fino a trasformarsi improvvisamente in percezione.
La parola “traccia” ci offre un nuovo appiglio al quale possiamo aggrapparci, non come ad un ultimo filo di speranza, ma come un avvicinamento che si concretizza ogni volta che lo lasciamo prodursi quando entriamo in contatto con l’opera. È un processo lento che si incrocia con l’automatismo della visione, con il guardare rapido e la volontà di riconoscere nuovamente. (Così, prima ancora che ci avviciniamo alla pittura, ecco che la quarta dimensione, il tempo, entra in gioco).
“Tracce” quindi. Questo significa che non siamo confrontati con qualcosa di indefinito, ma, al contrario, che l’astrazione ha la sua texture, le sue textures. Questo concetto ci apre molteplici piani di lettura, tra i quali i tre elencati di seguito, che potrebbero ricoprire una particolare importanza per la pittura:
La texture (dal latino: textura, “trama”) è:
- la caratterizzazione fisica delle superfici
- nella percezione visiva, la natura strutturale di una superficie unitaria
- in geologia, l’ordinamento spaziale di uno specifico ammasso di minerali

Fisicamente, la pittura è determinata attraverso la tensione della superficie, geologicamente quasi una sorta di tettonica configurata dai diversi strati – anche se la pittura di Moro non è mai fatta da una gestualità opulenta, ma al contrario dall’applicazione di numerosi strati finissimi. E questo ci riporta alla percezione visiva, alla percezione della “natura strutturale di una superficie unitaria”. Se la pittura ha una struttura, allora è presente anche una sorta di regolarità, soprattutto perché la pittura di Moro ha, nel senso più nobile del termine, qualche cosa di seriale, si gioca sulle ripetizioni. Ripetizioni che tuttavia non sono delle ridondanze, ma che nascono dal fatto che l’artista in ogni nuova opera interviene sulle strutture da lui già elaborate, variandole o riformulandole attraverso piccole e parziali modifiche.

“Texture”, “struttura”, “regolarità”, “nuova formulazione”: tutto questo ci rimanda al linguaggio. In effetti gli strutturalisti - e prima ancora di loro Walter Benjamin - ritenevano che non esisteva solo il linguaggio (o la grammatica) della lingua vera e propria, ma che fosse possibile parlare di linguaggio anche in altri ambiti. Quindi di un “linguaggio della pittura” o di una “écriture de la peinture” (NdT: in francese nel testo). È in linea generale la tesi di Claude Lévi-Strauss: “Se la pittura merita di essere definita un linguaggio, allora si compone, come tutte le altre lingue, di un codice particolare, le cui espressioni possono essere prodotte attraverso combinazioni di poche unità a loro volta appartenenti ad un codice generale.”

II.
Si tratterebbe quindi di individuare all’interno della pittura di Giancarlo Moro una sorta di vocabolario. Una delle due componenti di questo processo è costituta dal dispositivo della pittura, l’altra dalla sua percezione. Il dispositivo non può essere sviluppato senza la percezione - anche se quest’ultima, che corrisponde al greco aisthesis, include molto di più del semplice guardare. Da un lato aisthesis significa “senso” e “organo sensoriale”, mentre dall’altro, il suo significato in rapporto alla percezione non è limitato all’esperienza sensoriale, ma può designare tutto ciò che è esperibile; compreso il sentire interiore, pur se spogliato da ogni sentimentalità, .
Al fine di conservare una visione d’insieme e poiché questa pittura è una “macchina” altamente complessa, la scelta del vocabolario cade su una sorta di lista (esattamente come in un dizionario). Inoltre all’accertamento di ciò che appare in questa pittura sono inseparabilmente intrecciati (inseriti nel testo) ciò che accade con il vedere e i modi con cui la pittura opera.

I formati
A dominare è il quadrato, anche se non si tratta sempre di un quadrato perfetto. Il quadrato è il cuore delle più diverse relazioni geometriche, alle quali appartiene anche il rettangolo. Si manifesta nel quadrato una pura ed infinita relatività come quella documentata nel libretto di Bruno Munari Il quadrato. Libro nel quale troviamo anche una poesia del poeta concreto e teorico Carlo Belloli: “il campo/quadrato/la piazza/quadrato/la città/quadrato/la prigione/quadrato/la tomba/quadrato/la tenda/quadrato/la pelle/quadrato/la pupilla/quadrato/il quadrato/è/la società”.
Non è esagerato ricondurre la pittura di Moro a tali relazioni, che tra l’altro si ritrovano all’interno di tutta la storia della pittura, fino al “quadrato nero” di Malevi? e ai quadrati della pittura concreta. La quadratura del quadrato messa in atto da Moro, mostra già in se stessa l’abbondanza che si crea a partire da questa semplice forma – e ci mostra immediatamente l’immanenza di un pensiero architettonico, del quale parleremo ancora in seguito.

Le parti
Tutti i dipinti sono divisi in due, in tre o a volte in più parti sia verticalmente (nella maggior parte dei casi) che orizzontalmente. Queste divisioni creano dei quadri all’interno del quadro. Le dimensioni di queste suddivisioni geometriche sono – dal punto di vista della serialità o appunto del vocabolario – sempre simili, ma mai uguali. Seguono, almeno così sembra, una decisione preliminare che è più intuitiva che costruttivo-analitica. Le parti definiscono le relazioni all’interno del dipinto e creano delle strutture ritmiche di base. Esse tracciano all’interno del quadro delle frontiere, delle zone di transizione, delle giunture e degli assemblaggi, nei quali elementi dissimili, ma tuttavia internamente imparentati, dialogano l’uno con l’altro. Sono zone intermedie dell’inter-esse.

I modi di dipingere
Le suddivisioni sono definite non solo geometricamente, ma anche pittoricamente. Le diverse parti si distinguono grazie a differenti strutture pittoriche, a loro volta differenziate internamente in molteplici modi. Vi sono superfici più o meno “calme”, aree più scure o più chiare, che stanno in una relazione perfettamente calibrata o che instaurano un dialogo fra di loro – come una domanda e una risposta, come luce e ombra, come un suono e la sua eco. (Questi confronti mostrano una volta di più come la lingua si scontri con i propri limiti, quando si tratta di tradurre in parole il vocabolario pittorico). Ad un primo sguardo le strutture sembrano essere determinate dal caso, anche se non si tratta mai di una casualità della pittura. Quest’ultima è infatti troppo sfumata, costruita e stratificata. Ed è esattamente questo che si manifesta allo sguardo col passare del tempo. Così come appare chiaro che nella calma delle superfici si nasconde un fremito pittorico mentre, al contrario, nel disordine si cela la ritmicità dei tratti e dei colpi di pennello e delle spatolate. Le superfici si distinguono perché non posseggono un centro: siamo di fronte a un all over che potrebbe ampliarsi oltre i bordi, sia verso l’interno e che verso l’esterno, in maniera tendenzialmente infinita – un aspetto, quest’ultimo, che non deve però in nessun modo portarci a considerarlo come qualcosa di indefinito, di incompleto o di bruscamente abbandonato.

L’oggetto
L’oggetto di questa pittura è indubbiamente la pittura stessa. È il gioco con la monocromia, che tuttavia non è mai totale, è il passaggio dalla superficie alla profondità. Tuttavia, il fatto che lo sguardo colleghi rapidamente le strutture pittoriche con le strutture reali rende questo gioco ancora più stimolante e dimostra che l’automatismo dello sguardo si fonda sulla visione, o, per dirlo in altre parole: il ricordo delle cose viste fa si che vediamo cortecce di betulla o scogliere, licheni o acque luccicanti. Tuttavia questa pittura è sempre e totalmente pura invenzione, unita a molta intuizione, che ci fa pensare al riecheggiare e al risuonare di melodie.

Gli strati e la luce
La lentezza con la quale questa pittura si caratterizza è valorizzata dai molteplici strati che costituiscono l’epidermide pittorica. Quello che superficialmente potrebbe apparire monocromo si trasforma poco a poco in una policromia di toni, il cui sviluppo e svolgimento prende corpo nello sguardo con il passare del tempo. Questo processo è paragonabile a quello che avviene in un laboratorio fotografico, quando l’immagine potenziale, inizialmente ancora invisibile pur essendo stata esposta alla luce, dopo essere stata immersa nel bagno di sviluppo comincia ad apparire piano piano, guadagnando via via in nitidezza e precisione dei contorni. Come nella fotografia – ancora una volta una metafora – questo processo è determinato dalla luce: la pittura è un gioco con la luce, o meglio, la luce gioca nella pittura, assumendo un ruolo decisivo come nella scultura. La superficie pittorica esige dall’occhio un adattamento analogo a quello richiesto dalla vista al crepuscolo . Potremmo dire, per certi versi, che la percezione si schiarisce lentamente quando questa pittura via via appare. Non casualmente si tratta di una pittura tendenzialmente oscura: quella di cui Theodor W. Adorno ha osservato che si tratta dell’unica forma radicale di pittura. Nel processo della percezione, diventa chiaro, anche in questo caso gradualmente, che l’oscurità non è tenebrosa, ma al contrario altrettanto sfumata e differenziata quanto il suo contrario: la chiarezza, il bianco. Il nero non è, contrariamente ad un pregiudizio largamente diffuso, semplicemente nero. Nella pittura di Moro questo appare evidente quando assistiamo all’emergere progressivo del blu, il quale spazia lungo uno spettro che va dai toni duri a quelli morbidi, da quelli tenui, quasi effimeri, fino a quelli profondi e persistenti.
(A proposito della luce e dell’illuminazione è necessaria un’aggiunta: è consigliabile guardare i quadri di Moro sotto le più diverse forme di luce – e soprattutto avvalersi, come supporto alla visione, di una luce radente). Questo significa anche che non sono richiesti unicamente il movimento e la mobilità dell’occhio, ma anche, analogamente alla scultura, il movimento fisico. È necessario, nell’avvicinarsi a questi lavori, spostarsi in avanti e indietro e da destra a sinistra. Occorre inoltre osservare questi dipinti, che non hanno nulla a che vedere con le problematiche della prospettiva classica, da diverse angolature prospettiche).

Lo spazio pittorico e l’architettura
Da quanto detto finora risulta chiaro che quella di Moro non è soltanto una pittura radicale, ma anche una pittura che va in profondità, che apre degli spazi pittorici. Si potrebbe forse persino dire, per renderlo più evidente, che il suo modo di procedere e di agire sono di natura architettonica, o quantomeno paragonabili al pensiero architettonico. Questo è testimoniato dal carattere oggettuale dei dipinti, che non sono bidimensionali, ma che, attraverso il coinvolgimento delle superfici laterali, diventano tridimensionali. Se poi consideriamo anche il fattore temporale, ovvero il tempo della visione, questi dipinti sono, per ribadirlo ancora una volta in modo esplicito, quadridimensionali. Architettonico significa anche che i dipinti, nati da un’idea inizialmente ancora vaga, vengono gradualmente costruiti, riprogettati, configurati e definiti. Per fare ciò servono molto spesso gli “studi-progetti”, che come possibili mattoni o elementi costitutivi consentono diverse variazioni e combinazioni, senza che tutto sia già stato definito in precedenza. Ed è solo in questo modo che si sviluppa poco a poco quella profondità del dipinto che abbiamo evocato più volte in precedenza.

L’aspetto seriale: la ripetizione
Una volta colte le sfumature di un singolo dipinto, lo sguardo si volge all’insieme dell’opera, evidenziando così la serialità. La serie è un concetto. In questo caso serie non significa ripetizione, ma variazione: l’accento non va posto su ciò che è sempre uguale, ma al contrario su ciò che è sempre nuovo nella somiglianza. Il concetto parte dal principio che i fenomeni non sono mai conosciuti, visti e pensati fino in fondo. La ripetizione non è monotonia ma politonia; è la curiosità di vedere tutto ciò che ancora si cela all’interno di un fenomeno che pure sembra già esaurito. Per dirlo con Kierkegaard: la ripetizione è il ricordo in avanti. Nell’opera si sviluppa quello che si produce individualmente in ogni dipinto, ovvero un approfondimento crescente. Da questo punto di vista l’opera di Moro può essere considerata in maniera assolutamente metaforica come un modo per prendere posizione di fronte alla realtà: come un modello teorico di comprensione.

III.
Da capo – questo significa, nel caso della pittura di Moro, immergervi nuovamente lo sguardo, muoversi un’altra volta intorno ai quadri. Pur correndo il pericolo della ripetizione facendolo, bisogna osare questo movimento. Il ripetere, anche nel caso della visione, non è semplice ripetizione, ma, semmai un rivedere, un vedere di nuovo, e questo significa vedere nuovamente, vedere in un altro modo, vedere un’altra cosa.
Quindi lo sguardo deve muoversi di strato in strato: colui che osserva in fretta i dipinti di Giancarlo Moro, credendo di aver visto qualcosa, in realtà non ha visto nulla. Perché è necessario, osservandoli, sviluppare una lenta intensità, analoga a quella messa in pratica dal pittore quando dipinge. Occorre scoprirne strato dopo strato, per far percepire e assimilare all’occhio le tonalità cromatiche, le sfumature e i movimenti. Percepire significa capire, anche se non è solo la comprensione ad avere un ruolo in questo processo. La percezione è in un certo senso una comprensione sensoriale. Questo non significa che i dipinti di Moro siano una scuola dello sguardo, assolutamente. Tuttavia essi stimolano lo sguardo. Le sue opere richiedono che ci spostiamo, che gli giriamo attorno, che cambiamo punto di vista, che le guardiamo ancora una volta, che ci avviciniamo e che ci distanziamo da esse. È solo a questo punto che la texture dell’immagine si rivela. Texture significa ancora una volta, per dirla in un altro modo, addensamento e sovrapposizione; significa al contempo corrispondenza e contrapposizione: ogni dipinto da forma al suo interno a spazi differenti con differenti atmosfere e vibrazioni, strutture profonde nelle quali lo sguardo può penetrare in svariati modi. Ed è proprio a causa di questa architettura del quadro che una visione affrettata è condannata alla sconfitta – anche perché la complessità di un edificio non si rivela attraverso una rapida occhiata gettata su di una facciata che potrebbe essere solo apparenza. I segreti stanno molto più in profondità, all’interno.


1. Walter Benjamin, Sul linguaggio in generale e sul linguaggio dell’uomo: “Ogni manifestazione della vita spirituale dell’uomo si può intendere come un linguaggio. In quanto metodo veritiero, questa concezione dischiude ovunque nuove questioni”.
2. Baudelaire a proposito della pittura di Delacroix: “Un quadro è una macchina di cui tutti i sistemi riescono comprensibili ad un occhio esercitato”.
3. Sul metodo della lista, cfr. George Perec: “In ogni enumerazione ci sono due tentazioni contraddittorie: la prima è quella di censire tutto, la seconda di dimenticare comunque qualcosa; la prima vorrebbe chiudere definitivamente la questione, la seconda lasciarla aperta; tra l’esaustivo e l’incompiuto, l’enumerazione mi sembra che sia, prima di ogni pensiero (e prima di ogni classificazione), il segno indiscutibile di questo bisogno di nominare e riunire, senza il quale il mondo (‘la vita’) rimarrebbe per tutti noi privo di ‘storia’”.
4. Gernot Böhme, Theorie des Bildes: “Il crepuscolo è un fenomeno spaziale. È un’atmosfera che contiene tutto, ricopre d’ombra e rende indistinto, cancella le frontiere e che si annega nello spazio in qualche cosa di spesso nel quale ci ritroviamo”.

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2011

Giancarlo Moro

Marco Franciolli , direttore-conservatore Museo Cantonale d’Arte Lugano

La mostra dedicata a Giancarlo Moro si inserisce nella programmazione espositiva del Museo Cantonale d’Arte rivolta ad artisti attivi in Ticino che sviluppano il loro percorso creativo nel segno di una continuità del discorso pittorico. Una linea di ricerca che pone l’accento sulle questioni specifiche della pittura attuale, che intende evidenziare come, nel superamento delle rivoluzioni linguistiche e stilistiche della modernità, questo mezzo espressivo abbia saputo ritrovare una sua centralità nella dimensione estetica contemporanea.

La rinuncia a significati estranei alla pittura caratterizza una parte preponderante della dimensione estetica del XX secolo. Molte delle più pregnanti rivoluzioni linguistiche dell’arte si sono infatti attuate all’interno di un discorso pittorico finalmente affrancato dall’ossessione per la mimesi e avulso da sovrastrutture narrative. In realtà già Maurice Denis nel 1890 aveva evidenziato nel suo celeberrimo « Définition du Neo-traditionalisme » pubblicato sulla rivista Art et Critique come, per superare ogni accademismo, fosse necessario “Se rappeler qu’un tableau, avant d’être un cheval de bataille, une femme nue ou une quelconque anecdote, est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain ordre assemblées.” Non è un caso che tale citazione sia ormai abusata, la sua assoluta e folgorante pertinenza per l’astrazione moderna permane tuttora valida e anche in questo caso offre una chiave d’accesso illuminante.
La pittura di Giancarlo Moro è interamente incentrata – e concentrata – sulla superficie pittorica, sul suo ordinamento, sulla modulazione di infinite varianti tonali e strutturali: un quadro, come asseriva Maurice Denis, è una superficie sulla quale organizzare segni e colori. L’insistenza nell’approfondire le qualità connaturate alla pittura hanno condotto Giancarlo Moro a dominare con grande perizia ogni minimo elemento costitutivo del dipinto, in una ricerca che per taluni aspetti evoca le esperienze del coulour field, soprattutto nell’assenza di un punto culminante del quadro. Le superfici, lavorate attraverso un processo di sottrazione materica, assumono un peculiare aspetto levigato e translucido. Le campiture, strutturate attraverso linee verticali o orizzontali, che demarcano il confine fra una tonalità di colore e l’altra, contrappongono stesure regolari e piatte ad altre marcate da concrezioni di minuscoli segni in un’alternanza di chiaroscuri che definiscono le diverse profondità dei piani. Tale impressione, evidentemente non determinata da una ricerca illusionistica nella costruzione dello spazio bensì dai valori tonali della cromia, viene rafforzata dal diverso grado di lucidità o di opacità delle superfici, che talvolta assumono un aspetto vellutato che enfatizza la profondità dei neri, mentre in altri casi la superficie appare cerosa e morbida alla percezione retinica.
Nella pittura di Giancarlo Moro, improntata a grande rigore, il soggetto e le caratteristiche oggettuali coincidono, il significato stesso del dipinto risiede nelle sue caratteristiche cromatiche, segniche e materiche, nel modo in cui queste agiscono sulle nostre facoltà percettive, generando un’esperienza estetica, sensoriale ed emozionale intraducibile in linguaggi altri da quelli della visione.

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2005

Giancarlo Moro, della durata

Flaminio Gualdoni

La tavola è lì, con le sue proporzioni ragionevoli, padroneggiabili. Padronanza mentale, prima ancora che di gesto pittorico. Tavola, non tela, per aggirare la convenzione artificiosa: il quadro è cosa pittorica quanto cosa mentale, forma formata nello spazio fisico per poter essere anche altra da se stessa.

Ha un’assialità marcata, quasi a suggerire una preliminare necessità d’orizzonte. La pittura vi si stende cauta, scrutinante, in continua auscultazione delle proprie intime movenze. Come pudica, timorosa di lasciar lievitare lo stream emotivo da cui sgorga, affiorando da un sostrato lirico profondo e proliferante.
Si stende per bande che contraddicono, cadenzandolo, l’asse dell’aspettativa, il desiderio fondante d’orizzonte moltiplicandosi per riverbero nel consistere primo dell’immagine, sino a farsi, dell’immagine, la ragione stessa. E le stesure si distillano per brividi minimi, come sospettose d’effusione, toni precisi e tesi d’un colore sottratto al meretricio della captazione sensibile e reso introverso, ricco di straniate profondità. Tono e tono, banda e banda.
Messo in scacco l’equivoco inemotivo del concretismo storico e delle sue discendenze hard-edge, Moro ha riformulato quell’esattezza, quell’etica del nitore, sulla scorta della linea che ha innestato il surreale sul color-field: dico Rothko e Stamos, e poi la scuola della microemotività sino ai Tuttle, ai Palermo, al postminimalismo più sostanzioso. Con, in più, la consapevolezza tutta europea dell’astrazione mediterranea di marca europea, che da Nicholson e Licini, da Bissier a Baumeister, ha fatto dire con pertinenza di astrazione lirica.
“Angelico, geometrico”, per dire con Melotti, altro protagonista di quella stirpe, è lo stato d’animo del lavoro di Moro. Ove la geometria stessa – che è poi solo ritmo, scansione primaria del campo pittorico – è infine schema e non ideologia, differenziale necessario perché altro accada nel corso del processo: il tendersi armonico dei rapporti di tono, il loro scambiarsi entro uno spettro di consonanze ed echi reciproci di cui conta l’intimità specifica di ciascuno, e parimenti, per amplificazione, il mutare sottile dei registri di scambio.
Si avverte, nel governo saldo del grigio braquianamente moyen sul fremere lungo dei cobalti, sullo stremarsi delle materie svuotate a impronta, sull’aroma di verdi slontanati, di rosa addirittura, di bianchi-colore inturgiditi, una matrice naturalistica mai smentita, ma talmente risentita da trascendersi in un’immagine in tutto e per tutto pittorica.
Si avverte, soprattutto, il senso antico e orgoglioso della durata. La durata, ovvero un’implicazione dello sguardo a sua volta, come gli atti del fare, allentata sino a macerare lo spettacolo visibile in un mood tutto mentale, d’intima confidente fluenza emotiva.
Questa è la chiave prima del lavoro di Moro, pittore esatto, pittore d’affetti.

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2005

Ruth Moro - Giancarlo Moro

Jean-Michel Gard, direttore del Manoir de la Ville de Martigny

Dopo Claude e Andrée Frossard nel 2003, gli spagnoli Manuel Torres e José Hinojo nel 2004, i vodesi Claire Koenig e Christine Sefolosha nel 2002, il Manoir de la Ville de Martigny presenta di nuovo un'esposizione duale che questa volta riunisce due artisti ticinesi della stessa età, Ruth e Giancarlo Moro. Insieme formano una coppia armoniosa e complementare.

Ognuno di loro occupa un piano dello studio che confina con la loro dimora familiare, concepita come un esempio di modernità, di semplicità e d'integrazione in questo bel villaggio di Cavigliano. La loro casa è costruita sui terrazzi dei ripidi pendii delle Terre di Pedemonte tra Locarno e le Centovalli. Dai loro rispettivi atelier beneficiano d'un ampia vista sui tetti in pietra delle costruzioni locali, sull'intrico di stradine lastricate e sulle montagne boschive del retroterra. Questo ambiente strutturato, fatto soprattutto di pietra e di verde, non è senza influenza sulle loro ricerche artistiche.

E' in questa oasi di tranquilità e in questa atmosfera di campagna lussureggiante, che evoca le vacanze e inviterebbe piuttosto al dolce far niente, che Ruth e Giancarlo Moro lavorano realizzando ognuno di loro un opera specifica e rigorosa. Influenze reciproche, molto sottili e non sempre evidenti, dimostrano invece che non sono senza rapporto l'una con l'altro.

Giancarlo Moro dipinge a olio. I suoi quadri, di piccoli e medi formati, spesso oblunghi, si riducono quasi sempre a una scelta di ripartizione dello spazio in superfici geometriche semplici. La pittura minimalista di Giancarlo è basata su una sottile selezione dei colori e sul gioco dei loro contrasti, del loro splendore, dei loro accordi. I suoi colori favoriti sono i blu e i grigi che si ritrovano nell'ambiente di pietre e di rocce visibili dal suo studio. Toni dolci e teneri che conducono lo spettatore nel sfera mentale della meditazione. I suoi blu, antraciti o ardesia, dialogono sovente con dei rosa pallidi o dei verdi chiari. Alle superfici movimentate e vibranti, elaborate a spatola, che evocano spiagge e superfici d'acqua, rispondono campi di colori quasi puri. La geometria di Giancarlo è rigorosa, ma non obbedisce mai a regole o simmetrie. La comprensione di quest'astrazione lirica può avvenire solo progressivamente e lentamente. Solo uno sguardo paziente e attento permette di penetrare oltre l'opera e di percepire la poesia che vi si nasconde. Più si contempla la sua pittura, più questa vi parla, più si svela, più vi fa vibrare, più vi emoziona. Una pittura dai toni delicati e dalle audacie piene di tenerezza.

Traduzioni Eric-Alain Kohler

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2004

Soli e in coppia

Claudio Nembrini

La storia dell'arte moderna presenta alcuni casi, anche illustri, di coppie d'artisti che hanno operato gomito a gomito, con esiti sorprendenti, anche se non senza difficoltà.

Da Modigliani e Jeanne Hébutèrne, a Robert e Sonia Delaunay; David Alfaro Siqueiros e Frida Kahlo a Hans e Lea Grundig; da Zoran Music e Ida Barbarigo a Pietro Plescan e Tata Ferrero, e siamo nel contemporaneo. A volte la vicinanza ha giovato al lavoro di entrambi, anche se è facile immaginare come la presenza di una personalità forte abbia condizionato l'altra o l'altro. Ma anche in questi casi - si pensi alla Hébutèrne accanto a Modigliani - nonostante la comprensibile sudditanza psicologica, é poi emersa la sua personalità, artisticamente "inferiore", ma tutt'altro che trascurabile, anche quando la vicinanza si sente.
In altri casi, le singole esperienze si sono orientate verso strade diverse, apparentemente senza toccarsi.
Vi sono infine situazioni in cui la personalità degli artisti accoppiati si è rivelata di piu' o meno ugual spessore, pur nella singolarità delle rispettive ricerche. Sono forse le realtà piu' interessanti, soprattutto se il confronto quotidiano ha arricchito il lavoro di entrambi, senza privarle di quegli ingredienti che spesso nascono nel silenzio e nella solitudine. Le esperienze di Ruth e Giancarlo Moro, cosí vicine e cosí diverse, nel loro incontrarsi e nel loro allontanarsi, a volte nel loro influenzarsi ( non sono mai sfociati in opere a quattro mani ?) sono nati in uno spazio fisico concomitante, sicchè per molti versi sono esemplari dell'ultimo aspetto ricordato. La rassegna alla Pangeart, che per la prima volta in Ticino dà conto in simultanea della loro attività ( per Giancarlo Moro si tratta in oltre del primo cimento in pubblico nella nostra regione a sessant'anni ) oltre che per il significato delle singole opere costituisce uno sguardo, o se si vuole, una sorte di irruzione silenziosa nell'officina ( o nelle officine ) che le ha viste nascere.
Le note critiche sono di Claudio Nembrini.

Una vasta area dell'arte maggiore del XX secolo ha almeno un punto in comune: il levare. Levare nel senso di togliere, di ridurre all'essenza la materia e il pensiero. Certo, vi sono modi diversi di levare, e forse nessuno è in grado di dire dove il processo inizi e perchè. A volte, poi, questo sentimento del togliere lambisce il mondo dell'esperienza, diventa l'ossessione necessaria per far sí che dal magma indinstinto degli accumuli, delle stratificazioni culturali, sopravviva il filo della memoria che salda quel che resiste nel tempo e nello spazio della propria vicenda esistenziale.
A noi pare che anche nel caso di Giancarlo Moro qualcosa del genere sia accaduto e accada, che le sue testimonianze visive, abbastanza uniche per forma e per storia, cosí a lungo celate agli occhi dell'osservatore locale, rivelino fino in fondo l'appartenenza a questo gruppo sanguigno, al dí là degli esiti assoluti sul piano estetico, che non sono tuttavia secondari. Essi, comunque, sono accompagnati da una forte valenza etica, che riguarda lo stesso fatto del dipingere, e sucessivamente, del dar conto del proprio lavoro. Di qui lo stare ai margini, l' uscire quasi a tempo scaduto dalla lontananza del mondo in cui la propria esperienza è maturata e si è sviluppata. Il temerne la parzialità o l'inadeguatezza, dopo tanta anticamera. In realtà, l'opera anche nel suo caso parla da sè, rivela la legittima appartenenza al nostro tempo, con le sue oscillazioni, i suoi ripensamenti, le sue angosce; il tendere a una spiritualità non esterna alla natura e alla materia, ma come atto estremo, di sublimazione mentale, del loro attraversamento, di cui dà conto. Il retroterra culturale e sensitivo di Giancarlo Moro è quello lombardo-mediterraneo, ma un solido diaframma riflessivo, maturato negli anni di apprendistato silenzioso, gli impedisce di assumerlo senza meditazioni decisive. Le suggestioni già lontane dell' "ultimo naturalismo" e in genere di radice informale comuni alle esperienze dell'espressionismo astratto, si sono intrecciate con quelle dell'astrazione razionale, in apparenza ora prevalenti. Piú che annullarsi a vicenda, tuttavia, hanno resistito grazie a una sorta di ordine nuovo, creato dall'artista, in grado di armonizzarle: valori luministici, spaziali, sostanza materica, segnica, rigore geometrico, convivono grazie a un raffreddamento controllato della scala cromatica. Per Giancarlo Moro " il quadro diventa uno spazio mentale, metaforico, mai completamente posseduto dallo sguardo, ma frammentato e isolato nella singolarità delle parti..." . Di qui la sua articolazione a strati e la sua semplificazione formale. Gli antichi nel rappresentare le storie bibliche o evangeliche a volte ricorrevano ai frazionamenti del racconto in dittici, trittici, ecc. Il pittore di Cavigliano, per certi versi, fá la stessa cosa, anche se nel suo caso di artista moderno, " astratto" , tendente all'essenza delle cose, al loro svelamento anzichè al loro racconto - in questo memore di un soggiorno giapponese - , le stazioni del suo itinerario diventano quelle dei moti dell'anima sia pure celati sotto gli atomi e le molecole del corpo.

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2003

Il sentimento dentro la ragione

Maria Will

Strano artista, Giancarlo Moro. Raro davvero; che rifugge non solo i clamori fastidiosi a chi mira alla sostanza e non all’apparenza. Singolare se non unico infatti è il passo scelto da Giancarlo Moro per uscire dal chiuso dello studio: non quello che da un qui, da un supposto centro, si allarga gradatamente al fuori, ma quello invece rispondente ad un tracciato che origina in un punto discosto e che si snoda in modo imprevedibile, non si sa se per allontanarsi o per avvicinarsi.

La mostra personale che il pittore allestisce in questo autunno quasi inverno 2003 alla Galerie Krisal a Ginevra, riunendo un insieme coerente di lavori recenti, conferma l’atipicità di un percorso che fa di Giancarlo Moro uno “sconosciuto in patria”, nonostante la sua ricerca appaia solida e matura e nonostante la sua pittura sia stata giudicata dal critico Walter Schönenberger «qualitativamente alta, moralmente esigente».
Se si richiama questa stravaganza, peraltro sobria e persino nobile, che distingue l’essere artista di Giancarlo Moro, è perché, al fondo, essa serve a spiegarne l’opera, in quanto intimamente legata al carattere di essa: un’opera che ha nella lontananza come dimensione poetica e nella eccentricità o mutevolezza prospettica come elemento costruttivo – di struttura vera e propria – le sue coordinate fondamentali.
Figlio della cultura figurativa dell’espressionismo astratto nelle sue manifestazioni più liriche, Giancarlo Moro ha voluto stringere nelle regole dell’astrazione severa la sua immaginazione creativa ed espressiva, arrivando ad adottare procedimenti di tipo minimalista. Questo suo bisogno di darsi una misura, di controllare con la ragione il sentimento, gli è dettato da un’esigenza di segno morale – per l’appunto già rilevata da Schönenberger – secondo la quale l’ordine rappresenta una qualità che dall’ambito estetico si riverbera alla sfera della vita (e della vita sociale).
Ordine, equilibrio, silenzio formano l’impalcatura dei dipinti di Giancarlo Moro, fatti per la contemplazione. La zona in cui si attestano concede al pittore margini di manovra ridottissimi, che esigono una sottigliezza inventiva estrema pari solo alla raffinatezza di trattamento dei campi di colore. Sono superfici, queste, la cui intensità risulta amplificata da vibrazioni interne, risultato di una lunga elaborazione e di una incessante speculazione mentale. Nelle composizioni di Giancarlo Moro, superfici – o spazi – multipli si concatenano tra loro raggiungendo un equilibrio il più delle volte armonico, talvolta appena turbato (ma allora quanto denso di conseguenze può essere quel varco che si insinua!); lo sguardo è invitato a scorrere secondo una precisa direzione e a passare con movimento incessante da una visuale microscopica ad una invece panoramica. Vagando per quelle estensioni potenzialmente infinite che si aprono dentro le “stanze” aperte e svelate da Giancarlo Moro, l’occhio trova appigli quasi segreti che riconducono la visione ad un piano pressoché discorsivo nel grande alveo risolutore della natura.
Le altezze di assoluto cui tendono, raggiungendole, i dipinti di Giancarlo Moro esigono dal pittore sempre nuovi traguardi, sfide poderose giocate e risolte nella intatta intimità di un dialogo interiore progressivamente catturato dal fascino della riduzione massima – Absolument rien, absolument tout è il titolo, emblematico di tutta una filosofia, che l’artista ha dato ad una sua opera di quest’anno. Ma in quel dialogo resta sospesa nel gesto l’ultima, definitiva mossa. Dopo la quale ne verranno tuttavia infinite altre successive.

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2002

Spazi scorrevoli

Considerazioni sull’astrattismo di Giancarlo Moro, Walter Schönenberger

La pittura di Giancarlo Moro ci si presenta come erede della grande tradizione astrattista del ventesimo secolo; più esattamente di quella sua evoluzione che ha portato a un recupero dell’esperienza sensoriale, del dato naturalista. Ciò nonostante sceglie un’organzizzazione chiaramente minimalista della superficie. Il quadrato, il rettangolo sono l’immagine di base su cui si articola il discorso, che non è per questo ridotto a una scarna, povera essenzialità.

E’ come se Moro con pochissimi, ma fondamentali elementi ci volesse restituire la ricchezza e la complessità del visibile. Per rimanere nell’ambito del quadrilatero, viene in mente di citare due maestri che ne hanno illustrato le potenzialità: Albers e Rothko. Ma in questi due casi l’immagine geometrica e le superficie colorate che supporta ci portano verso un’icona della trascendenza che con la materia, e la fisicità che comporta, non hanno più diretto rapporto. Moro, con le sue attente, ponderate composizioni, ci appare più vicino al significato del quattro: dei quattro angoli, dei quattro lati, che è la manifestazione del creato nella materia, nel tempo, nello spazio. Effettivamente materia, tempo, spazio sono gli elementi compositivi più evidenti dei suoi quadri. La materia si evidenzia nelle superficie dolcemente sfarinate con spesso due colori sovrapposti in modo che lo strato inferiore affiori alla superficie di quello superiore, steso irregolarmente. Siamo però all’opposto di una scelte gestuale in quanto il procedimento, che spesso utilizza due colori contrastanti, è volto a restituire un effetto di luce progressiva o cangiante, chiaramente d’origine atmosferica. Qualche volta Moro indulge negli spessori che ottiene utilizzando materiale organico, vegetale, E’ questo un risultato di osmosi con la moglie, Ruth, artista che utilizza il tessuto vegetale per le sue composizioni astratte. L’altra, forse più determinante influenza, l’artista l’ha avuta durante un soggiorno in Giappone, di fronte alla geometrica essenzialità delle case tradizionali nipponiche e alla suggestione spaziale fornita dagli “shoji”, le pareti scorrevoli di carta, che si spostano orizzontalmente, da sinistra a destra o viceversa, aprendo prospettive intere, parziali, appena accennate, attraverso le quali si “sbircia”, come Moro stesso ci spiega in modo persuasivo in un suo testo di autopresentazione. Gli spazi, che scivolano orizzontalmente, sono dati dai rettangoli, accostati, solitamente tre e solitamente di grandezza digradante. Il movimento dell’occhio indotto dalla composizione fa scivolare lo sguardo da un colore scuro, spesso nero, a zone più chiare, fino a un baluginare di luce che indica il punto più lontano. Lo stesso si riscontra nelle composizioni verticali, dove l’infinito è suggerito da stratificarsi irregolare (di altezza e “peso” diversi), dalla più scura alla più chiara, in alto. Tutto questo movimento dell’occhio, che assume un’esperienza spaziale, si effettua nel tempo, se pur in brevissimi istanti. Con questi pochi elementi Moro risveglia in noi esperienze corporee in luoghi reali, sensazioni cromatiche, luminose, vissute. Le gamme cromatiche sono fredde, tenute sugli azzurri, i grigiazzurri, dal nero fino al bianco. A volte, però, Moro utilizza dei neri “caldi”, carichi di luminosità contenuta. Quando si concede qualche incursione in colori più vivi, come il rosso o il giallo, l’artista ne abbassa di qualche tono lo squillare riconducendoli a une “naturalezza” più intonata alle sue scelte.
Le composizioni astratte di Giancarlo Moro si collocano all’opposto di una non-figurazione “mentale”, quella della “Bauhaus”, per intenderci, o della “Scuola di Zurigo” di cui tuttavia l’artista, svizzero, deve aver tenuto conto, almeno come lezione di rigore. Non sono applicazioni a tavolino della sezione aurea anche se a volte, per il loro “sbilanciamento bilanciato” fanno pensare a essa. Ma si tratta di approccio istintivo a una legge della proporzione, d’altronde riscontravile in natura. Spiegabili con la sua origine, il suo luogo di vita, ci sembra piuttosto l’orientamento del nostro pittore: non la Scuola di Como, degli anni Trenta, troppo ispirata all’intellettualismo della Bauhaus, del “Cercle et Carré”, della “Konkrete Kunst” zurighese, ma artisti italiani più “padani” come Calderara, Bonfanti, il Licini non figurativo che in modi diversi hanno tradotto esperienze di luce atmosferica.
La pittura di Moro è qualitativamente alta, moralmente esigente, introduce in un contesto locale una risonanza lontana. I suoi dipinti fanno ordine nella nostra mente e ci predispongono a una contemplazione attiva molto al di là dell’armonia della loro immagine.

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